ORAZIO: ARTE POETICA

 

 

Introduzione:

La Epistula ad Pisones, meglio nota come Ars poetica, è una sorta di trattato in versi dedicato alla famiglia dei Pisones, della gens Calpurnia, insigne famiglia romana  nella quale Orazio riconobbe di certo l’amore delle lettere e la protezione dei letterati. L’identificazione del destinatario ha generato una controversa questione, ma con grande probabilità, la lettera fu indirizzata a Lucio Calpurnio Pisone, che fu console nel 15 a.C., e ai suoi due giovani figli Lucio e Gaio. Lucio Pisone era, a sua volta, figlio di Lucio Pisone Cesonino, grande protettore di filosofi e poeti e specialmente di un pensatore epicureo, Filodemo di Gadara, al quale concesse di vivere nella propria villa di Ercolano. Quest’abitazione, che divenne piuttosto un vero e proprio centro d’elaborazione culturale, era particolarmente frequentata dal nostro poeta e da molti componenti della cerchia a cui apparteneva, come Virgilio, L. Vario Rufo e Quintilio Varo. Filodemo era, al tempo, il maggior esponente in Italia dell’ epicureismo e sappiamo che scrisse, oltre a svariate opere squisitamente filosofiche, alcuni trattati di Retorica e di Arte poetica,e in particolare, ciò che più in questa sede ci interessa, un’opera pervenutaci sottoforma di frammentari papiri dal titolo Intorno alla poesia. In essa il filosofo epicureo contestava i concetti fondamentali di un trattato peripatetico  appunto sull’arte della poesia, risalente al terzo secolo a.C. e appartenente a Neottolemo di Pario, grammatico e poeta vissuto tra il quarto e il terzo secolo. Della sua opera sappiamo soltanto ciò che fu citato  e ripreso da Filodemo per essere spietatamente criticato: questa critica approdò alla teorizzazione di concetti molto insoliti per l’arte antica, come l’inseparabilità di elocuzione e contenuto e l’indipendenza della poesia da ogni scopo pratico, morale, utilitaristico. La novità di questo pensiero, che può addirittura essere posto alla base dell’Estetica moderna, suonò assurda e improponibile alle orecchie dei contemporanei e anche del nostro poeta, che scelse come fonte principale della sua Ars poetica proprio quella trattazione di Neottolemo che l’amico epicureo aveva criticata. Ecco infatti i concetti alla base dei due scritti sulla poesia: netta separazione tra contenuto della Poesia ed elocuzione, uguale importanza di  entrambi gli elementi, attribuzione di uno scopo pratico-morale alla Poesia. E’ da notare che questi sono i principi di quell’Estetica classica che, dall’antichità,  fu integralmente ripresa dal Rinascimento, periodo in cui l’opera di Orazio fu più sensibilmente studiata.

Perché Orazio abbia ripreso tale trattazione si spiega con tre motivi; il primo è di carattere culturale e consiste nel fatto che la sua formazione era largamente imbevuta dei saggi insegnamenti aristotelici (la Poetica di Aristotele fu, infatti, un’altra fonte importante); il secondo è da ricondurre al fatto che le sterili critiche di Filodemo non si erano tradotte in una nuova, alternativa dottrina; il terzo motivo è forse di carattere personale: “Orazio componeva la sua Arte poetica nell’ultimo periodo della sua vita, quando inclinava verso una visione essenzialmente pratica e morale della Poesia e per l’appunto fissava alla sua Musa scopi di utilità sociale: perciò nel trattato di Neottolemo, non nelle negazioni di Filodemo, trovava un’attuale e reale corrispondenza con la sua propria condizione. In questo senso possiamo dire che l’Arte poetica è anche espressiva dei sentimenti e dell’attività e della condizione spirituale di Orazio nell’ultimo periodo della sua vita” (Augusto Rostagni).

 La novità più vistosa delle epistole oraziane sta nell’aver introdotto, all’interno del tradizionale e diffuso schema epistolare, il verso esametrico e, a sua volta, la novità della lettera  che a noi interessa, consiste nella scelta dell’argomento, ovvero la tematica letteraria, che fa di quest’opera  uno dei più acuti trattati di critica letteraria di tutta l’antichità, insieme a quello dell’anonimo del Sublime e alla già citata Poetica di Aristotele. L’Arte poetica nella sostanza ha tutto il carattere e lo schema delle cosiddette “trattazioni di poesia”, composte coll’intento di fornire principi normativi e moduli fissi, e in effetti Orazio vi espone in modo sistematico precetti di poetica.

Rifacendosi ai trattati ellenistici, l’autore struttura l’opera in tre parti: la prima chiamata ποίησις riguarda il contenuto (res, materia), cioè l’invenzione e l’uso di argomenti poetici (vv 1-41); la seconda chiamata ποίημα riguarda la forma (vv 42-294); infine la terza chiamata ποιητηής riguarda non tanto l’ars, quanto la persona stessa del poeta. Argomento essenziale dell’opera è la questione del primato della natura o della tecnica (ars) nel determinare l’eccellenza dell’opera poetica. Analizziamo ora i punti principali di ognuna delle tre parti.

Ποίησις

Il contenuto (inventio rerum) deve essere simplex et unum, per evitare il ridicolo e deve essere adatto alle forze di ognuno (materiam aequam / viribus). L’opera di poesia è assimilata ad un essere naturale che trova la proporzione delle parti in un determinato ordine e giusta grandezza: condizioni essenziali del Bello. “Ai pittori e ai poeti è stata sempre riconosciuta la facoltà d’intraprendere qualsiasi audacia. Io stesso concedo questa libertà: ma non al punto che bestie feroci si accoppino a quelle mansuete”. La Poesia è un’arte di μίμησις (la quale si esprime maggiormente nei generi drammatici) e deve quantomeno attenersi al verosimile e non ad infondate immaginazioni (vanae species) che non rispondono al reale. Viene ribadito il concetto tipicamente aristotelico del giusto mezzo, e alla μεσότης Orazio aderisce a livello morale ed estetico.

 

Ποίημα

Per il fatto che “in Poesia importa più l’essere formato che l’avere un ricco contenuto d’idee”, questa parte è molto più ampia della precedente. L’argomento inventato deve essere svolto attraverso dei fondamentali elementi formali che sono: l’ordine, cioè dire il necessario e al momento opportuno, evitando il superfluo; l’elocuzione (facundia), la quale deve essere legata in  una forma metrica scelta a seconda del contenuto dell’opera, adattata ai vari generi di poesia e al carattere dei personaggi (sia che siano storici o inventati) e soprattutto deve essere diversa dal linguaggio comune per il fatto che usa vocaboli rari e neologismi, uno stile colorito e ricercato anch’esso rigorosamente adattato ai vari generi poetici. Queste due prime parti costituiscono la vera e propria ars, quindi “viene spontaneo il confronto tra il contenuto e gli elementi formali. Da quale delle due parti dipende l’originalità e il pregio della Poesia? Non importa che il contenuto sia già stato trattato da altri: occorre che a quello il poeta imponga con le virtù formali la propria impronta (proprie dicere)”. Già Neottolemo diceva che “alla forma va attribuita importanza maggiore che al contenuto” e Filodemo che “il poeta, se da altri prenda la materia informe e le applichi il proprio spirito, non lo consideriamo perciò meno valente...anzi troviamo che spesso chi ha copiato l’argomento è migliore dei predecessori purché vi abbia apportato maggior virtù formale”.  

Per Orazio, infatti, gli argomenti tramandati (publica materies) possono diventare di dominio privato (privati iuris) purché ricevano originalità attraverso una nuova forma. L’autore a questo punto si concentra sull’applicazione degli elementi formali finora trattati, ai singoli generi poetici, ed in particolare quelli drammatici in cui la Poesia effettua al massimo grado la propria essenza mimetica.

Per quanto riguarda la Tragedia, genere sommo tra i sommi, e la Commedia, secondo le norme aristoteliche, esse tendono ad uno stesso fine, quindi  vengono considerate a partire dalla loro comune essenza come μῦθος, come azione “semplice e unitaria”. Orazio si occupa inoltre di cose d’ordine pratico e accessorio: studio dei caratteri dei personaggi (etologia ), i quali devono essere anonimi e universali, proprio perché l’universale, i communia sono l’oggetto della Poesia al quale l’autore deve poi applicare la propria impronta (i caratteri principali sono il puer, l’adulescens, il vir, il senex); norme concernenti la suddivisione del dramma in una parte eseguita (agitur) e in una narrata (refertur); norme concernenti l’ampiezza del dramma, il quale deve essere diviso in cinque atti (Aristotele ne aveva indicati tre); dal teatro classico greco deriva le norme concernenti il numero degli attori, i quali devono essere tre al massimo, a differenza di quello romano (Plauto e Terenzio) dove troviamo fino a sei attori ;  l’artificio del deus ex machina, il quale deve essere introdotto solo quando ce ne sia assoluta necessità per concludere il Dramma. A questo proposito Orazio, d’accordo con Aristotele, condanna lo scioglimento (λύσις ) del nodo (δῆσις) attraverso l’intervento divino, ma lo reinterpreta con un’indulgenza tipicamente ellenistica; norme concernenti il ruolo del coro, il quale deve essere considerato come un attore e per questo deve prendere parte all’azione e non essere un semplice intermezzo musicale, come spesso accadeva nel teatro romano, ma ricoprire una parte morale e moderatrice; alle parti corali si accompagna la musica, che deve essere semplice, austera e sottomessa alla Poesia e non da questa indipendente come in seguito era diventata.

Alla Tragedia è strettamente connesso il Dramma Satiresco, il quale è “una specie di tragedia scherzosa”, cioè un genere vicino alla Tragedia per il fatto che ha come personaggi Dei ed Eroi, e vicino alla Commedia perché non usa il  tono grave e solenne della Tragedia. Non bisogna interpretare questa parte dell’opera (vv.156-219) come un tentativo, da parte di Orazio, di fornire consigli e precetti ai Pisoni, dal momento che il maggiore dei figli era interessato a comporre drammi satireschi. C’è da dire che questo capitolo tratta le caratteristiche del Dramma Satiresco greco, al quale vengono peraltro avvicinate le Atellane e la satura drammatica romana. I generi drammatici fin qui considerati hanno in comune il verso, che è l’elemento supremo in cui si attua la perfezione formale. Esso è, nelle parti dialogate, il trimetro giambico, il cui uso, secondo Orazio, non deve essere trascurato come fanno Ennio, Plauto, Accio, ma piuttosto ricondotto alla maniera classica e perfetta dei modelli greci ( “dove il giambo rimane sempre il padrone di casa”). In quest’ultima parte si ripresenta il problema, già affrontato, dell’originalità, ovvero quanto importi l’invenzione a confronto dell’elaborazione formale: i Romani, riprendendo quegli stessi  generi drammatici inventati e poi via via perfezionati dai Greci, cercarono di introdurre nella letteratura la loro differente personalità, ma ad essi mancò l’elaborazione formale, la pazienza, insomma  l’indispensabile ars.

 

Ποιητής

Questa ultima terza parte non si riferisce tanto all’ars quanto all’artifex, cioè alla persona del poeta. Corrisponde alla parte che nei trattati di Retorica è chiamata dell’ orator in contrapposizione all’ars oratoria. La dottrina ellenistica riserva a questa parte la trattazione dei problemi che riguardano la natura e il fine della poesia, in quanto natura e fine del poeta. Innanzitutto Orazio fa un rimprovero ai Romani per aver riposto troppa fiducia nell’ ‘’ingenium’’ ed aver quindi trascurato l’ars. A questo punto l’autore svolge tre quesiti: 1) formazione del poeta: un bravo poeta deve avere una generale preparazione filosofica, come è uso dei Greci ma non dei Romani. Già Aristotele, per difendere la Poesia dagli attacchi di Platone, ne aveva individuato l’oggetto nel verosimile e nell’universale, perciò essa richiede un procedimento razionale analogo a quello filosofico. Orazio riprende questi concetti, aggiungendovi una chiara coloritura stoica: un bravo poeta deve essere innanzitutto un bravo uomo (secondo la concezione aristotelica della Poesia come μίμησις βίου ) e sapienza significa essenzialmente virtù. “La Poesia  non provvista di un sostrato filosofico appare come puro suono. Giunto ad età matura Orazio quasi considerava come nugae la sua stessa produzione lirica”. La superiorità dei Greci rispetto ai Romani si basa  sul fatto che i primi seppero congiungere l’ ingenium all’ ars (dove ars significa “esprimersi con parola perfetta”) proprio perché nelle loro scuole ricevettero un’educazione (la παιδεία greca e specialmente ateniese) che si basava sulla Poesia e sulla Filosofia. I Romani, invece, nella loro formazione, si concentrarono sugli aspetti pratici e materiali e quindi furono “avidi” non di cose oneste, ma di guadagni; 2) il fine della Poesia e del poeta: il fine può essere utilitario (prodesse), edonistico (delectare), o misto di utilità e piacere (simul iucunda et idonea dicere vitae). L’utilità, secondo quanto diceva la scuola peripatetica, risiede nel contenuto pragmatico-morale-filosofico dei fatti, delle cose vere della vita ed ha quindi una funzione didascalica. Il piacere si ottiene, invece, con la finzione spesso fantastica ed assurda. Il perfetto poeta deve saper combinare e regolare questi due elementi che non sono da soli sufficienti a raggiungere il fine ultimo della Poesia, che è misto di utilità e piacere; 3) definizione di poeta perfetto: prima di determinare i difetti  e la perfezione del poeta, l’autore dichiara che la perfezione assoluta non esiste in nessuna cosa umana e, di conseguenza, essa è da considerarsi un valore relativo. Alcuni errori sono quindi perdonabili anche ai grandi poeti, che sono grandi proprio perché l’errore è per loro solo un’eccezione. Al perfetto poeta sono consentiti alcuni difetti, ma non la mediocrità, che è da rifuggire a tutti i costi, e che scoraggia le aspettative di tutti coloro che avessero avuto l’impressione di poter essere bravi poeti solo attraverso la diligenza: il vero poeta deve sentire dentro di sé un’ispirazione innata e naturale e soltanto in seguito sottoporsi alle fatiche dello studio. Questo precetto si risolve nella condanna del  cittadino romano di classe patrizia che, fiero dei propri diritti politici e capacità giuridiche, pretende di essere capace in tutto, anche di fare Poesia. Ma chi è, dunque, il perfetto poeta? Non è un semplice versaiolo, ma un uomo completo, virtuoso e sapiente “capace di assolvere nobili funzioni religiose, civili, morali che da antico appartengono alla vera Poesia”. Un tale uomo può diventare un perfetto poeta se sa unire il proprio ingegno naturale, scintilla divina, alle correzioni dell’arte, allo studio, alle fatiche e se non si lascia ingannare dal plauso degli adulatori, ma accetta utili consigli e insegnamenti. Ma soprattutto il poeta non deve per nessuna ragione essere pazzo; Se Democrito e Platone consideravano il poeta come un invasato e la Poesia il frutto di un naturale di un istintivo entusiasmo, la posizione del nostro autore è, in sostanza, quella conciliativa e mediana della scuola peripatetica, che troviamo anche in Neottolemo, sua principale fonte.

 Orazio dipinge un divertente ritratto del demens poeta che si crede un genio ispirato, in antitesi al perfectus poeta, la  cui figura, alla fine dell’epistola è fin troppo chiara. Alla dottrina del “furore poetico” Orazio contrappone la pazienza, la lima, convinto che la Poesia è fondata sulla prudenza, sull’aurea mediocritas, valori incrollabili della sua intera poetica e del pensiero stesso di un autore che, al termine della sua vita, cercava più che mai nella moderazione e nella equilibrata moralità che pervade ogni verso di questa lettera, una sapiente conclusione della propria produzione, nonché un coerente messaggio di vita.     

 

 

Testi consultati:

Q.Orazio Flacco, Arte poetica, introduzione e commento di A. Rostagni;

Q.Orazio Flacco, Tutte le opere, versione introduzione e note di E. Cetrangolo.