IL SUBLIME PRIMA DI PLATONE

La più antica tradizione ellenica raffigura il poeta come un essere soprannaturale, in stretto rapporto con la divinità che lo ispira. Tra le genti antiche la poesia fu ricchezza d’immaginazione e canto, e ritmo, e attraeva, e affascinava, e commuoveva, poiché eccitava nello stesso momento la fantasia ed il sentimento. Ed i poeti apparivano circonfusi di un’aureola di sacralità. Non a caso il mito greco immaginò Orfeo, poeta e musico della Tracia, il cui canto, accompagnato dalla cetra, ammansiva perfino le belve.

Demodoco, l’aedo della casa di Alcinoo, è il “divino cantore cui la Musa prese ad amare oltremodo e gli diede un bene ed un male: lo privò della vista, ma gli diede il dolce canto”. L’ha fatto cieco al mondo esterno, alle umane vicende perché badasse maggiormente alla sua ispirazione interna. Durante il banchetto nella dimora di Alcinoo, re dei Feaci, Omero pone in bocca al sovrano tali parole: “Chiamate il cantore divino: Demodoco: a lui un dio largì il canto, per allietare, come l’animo induce a cantare”. La tradizione ha voluto cieco anche Omero. 

Femio, l’aedo della casa di Ulisse, “ ha imparato da sé il canto in onore degli uomini e degli dei; un dio gl’ispirò nell’animo le più svariate armonie”. “…aedo , che canto agli dei ed agli uomini. Da me ho imparato, il dio m’ispirò ogni sorta di canto nell’animo…” dice Femio di sé, supplicando Odisseo di risparmiarlo, quando avviene la strage dei Proci.

Ad Esiodo “le Muse un giorno insegnarono il bel canto mentre pascolava gli agnelli sul divino Elicona;…diedero come insegna un ramo di virente alloro, che avevano colto, mirabile. E ispirarono il canto profetico, perché cantasse il futuro ed il passato”.

Per gli antichi la poesia era dono divino ed il vate era profeta-poeta. Egli parlava perché riceveva l’ispirazione, come se una potenza sovrumana lo insufflasse, secondo l’opinione, anzi la convinzione, diffusa di quei tempi. Pertanto, questo termine di uso corrente, “ispirazione” (ἐνθουσιασμός), richiama alla memoria quelle epoche remote in cui si credeva che il poeta ottenesse la sua facoltà poetica da una divinità che gliela infondeva.

La poesia antica nasceva dal medesimo stupito fantasticare di un pensiero primitivo e ingenuo, che si lasciava avvincere dalla meraviglia davanti ad una natura incomprensibile e a tutti quei fenomeni, apparentemente inspiegabili, che potevano atterrire o riempire di estatica ammirazione.

Quando, accanto alle scuole poetiche, vennero formandosi le prime scuole filosofiche, che si proponevano di ricercare la verità per mezzo del ragionamento, nacque una reazione contro le fantasticherie dei poeti, divulgatori di falsità, ed iniziò il contrasto poesia-scienza.

Senofane si scagliò contro le favole degli antichi e specialmente contro Omero ed Esiodo, i quali hanno dato degli dei una concezione falsa ed empia, basata unicamente sulla fantasia:

 

C’è un solo Dio tra i numi e tra gli uomini massimo, punto

Simile a noi mortali né di corpo né d’intelligenza.

Nel suo tutto egli vede, nel suo tutto egli pensa ed ascolta,

Ma senza alcun travaglio con la mente ogni cosa egli muove.

Sempre nel luogo istesso egli resta e per nulla si muove,

Né a lui punto s’addice trasferirsi da un luogo ad un altro.

 

Secondo Eraclito l’uomo ha due organi nella ricerca del vero: la ragione ed il senso; il senso senza la ragione non può raggiungere la verità. Condanna la poesia dicendo che è ispirazione basata unicamente sul senso, senza il controllo della ragione e perciò maestra di falsità.

In Pindaro il poeta può essere tale o per natura o per apprendimento ma è ovvio che il vero poeta è colui che considera la poesia come missione, colui che sa molte cose grazie al suo genio naturale concesso da Dio: “savio è per me chi sa molte cose per natura; quanto ai saputelli per arte appresa, procaci per loquacità, gracchino pure a guisa di corvi, invano contro l’uccello divino di Zeus”. In Pindaro abbiamo la vittoria piena del genio naturale  sull’arte appresa con lo studio: il vero saggio (σοφός) è il poeta.

 

I doni di natura sono di tutti i migliori. Molti degli uomini si sforzano bensì di acquistarsi gloria per mezzo delle virtù apprese, ma quando manca la disposizione di natura, concessa dalla divinità, ogni impresa non ha nulla da perdere, sia che la si lodi, sia che se ne taccia. Vie ci sono che vanno più lungi di altre vie, né c’è un unico ingegno che ci nutra tutti. Sublime l’arte. (Olimpica IX)

 

Il dio è visto la forza interiore che alberga nell’animo umano, che parla al cuore di ognuno, quando l’uomo si mette in ascolto, nel silenzio e nell’accettazione. Ogni greco, al di là della sua religiosità ufficiale, aveva un rapporto particolare con la divinità, la cui voce lui sentiva e richiedeva nei momenti di bisogno e nelle prove della vita. Al di là di questo rapporto, al di là delle capacità del singolo, vi è poi l’arte, dono di pochi che infonde nell’animo umano una sapienza quasi divina, una sensibilità impercettibile al comune mortale, che avvicina il poeta al mondo perfetto, calmo ed eterno dei cieli immortali. Per questo Pindaro in un punto dell’Olimpica dice di sé: “per fatale ausilio curo il giardino delle Grazie eletto”.

È significativo vedere il giudizio che dà l’Anonimo, autore dell’opera Sul Sublime, riguardo a Pindaro: “Nella lirica preferiresti essere Bacchilide piuttosto che Pindaro, nella tragedia Ione di Chio oppure Sofocle? Gli uni sono incensurati e dovunque elegantemente ricercati, mentre Pindaro e Sofocle sembra che brucino tutto con il loro impeto, ma spesso si esauriscono improvvisamente e cadono nel modo più infelice”.

Così anche per Democrito la poesia è essenzialmente ispirazione. Dice infatti: “tutto ciò che il poeta scrive con entusiasmo e divina ispirazione è certamente molto bello”. Parlando di Omero dice che “ egli poté comporre poemi così magnifici e vari, perché aveva sortito una natura ispirata”.