1987-88

Liceo Classico “E.S.Piccolomini” di Siena

III C

 

“Oh ragazzi, ma perché per Carnevale non ci si veste tutti da Fanettino?”.

 

Chissà a chi venne in mente, quell’idea che avrebbe divertito noi e lui, il martedì grasso di trenta anni fa. Camicia, immancabile cravatta, golf con lo scollo a V (per lo più blu o grigio, se la memoria non m’inganna), baffo d’ordinanza, occhiali. Così ci trovò quando il 16 febbraio 1988 entrò nella IIIC il professor Duccio Fanetti, che per antitesi col fisico imponente appellavamo affettuosamente con la desinenza -ino. Anche se in realtà utilizzava proprio quel binomio cadenzato “Dùccio Fanétti” per umanizzare l’altrimenti insostenibile metrica, così come “Tànto và la gàtta al làrdo ché ci làscia lò zampìn” era la riproposizione gioiosa di un qualche trimetro giambico, forse anche catalettico. Si studiava – chi tanto, chi meno – e si rideva, un po’ amaramente quando c’era la sadica consegna con i voti a ritroso dei compiti di greco e latino. Si partiva da Rita La Gaetana, inevitabilmente, e quando si passava il Rubicone del cinque (ancora una sconfitta onorevole) poteva succedere di tutto. Ormai naufraghi senza speranza, non restava che abbozzare sportivamente di fronte a un surreale “tra il tre e mezzo e il quattro meno meno”, che veniva consegnato in un clima da corrida. Era il modo di “Fanettino” di vivere serenamente quelle ore di lezione che sapeva essere comunque pesanti. Ci avrebbe portato fino alla maturità, qualcuno pienamente consapevole, altri trascinati. Ma sempre memori di quello “zampìn”, simbolo di empatia e levità.

 

Orlando Pacchiani

 

 

 

  

  

 

 

 

Lezioni fanettiane

 

Tre cose soprattutto ho imparato dai tre anni trascorsi sotto la docenza del prof. Duccio, che hanno influenzato i miei anni successivi, e voglio condividerle.

 

LA POESIA

Con lui ho imparato e capito cosa sia realmente la poesia, dove se ne riconosca il valore e come se ne colgano le qualità; fu durante la spiegazione della arcifamosa Odi et amo di Catullo – la poesia che ogni tenero liceale adolescente sente sua e sogna di avere scritto per una propria Lesbia (senza la “c”) senza nemmeno sapere il latino – allorquando portò la nostra attenzione, o meglio di quelli che stavano attenti e seguivano, sul fortasse (che ai giorni nostri sarà letto come un evento a favore delle tasse, come il “family day” per le famiglie, il “gay pride” per le famiglie arcobaleno in un'orgia, -è il caso di dirlo?-, di provincialissima anglofilia) e specialmente sull'excrucior, letto naturalmente alla latina con la “c” dura. Ci fece capire (o forse solo a me, chi lo sa?), che anche due parole oggettivamente cacofoniche potevano diventare poesia sotto la penna (o quel che maneggiava Catullo) di un poeta vero, se inserite nel fluido ritmo dei versi, e sonore quanto necessario a rendere la confusione e contraddittorietà dei sentimenti. Usate nel loro significato e anche metaforicamente, aspre e quasi brutali, soprattutto l'excrucior. Di lì in avanti ho letto le poesie con altri occhi; anche quando non le capivo.

 

LA NOTTATA

Il suo metodo delle famigerate “interrogazioni programmate”, oltre ad essere quanto di più simile al successivo mondo universitario, mi aprì le porte di un'amicizia che dura ancora: quella con la nottata. I ritardi doverosi, i molteplici impegni del liceale, la riluttanza ad una meticolosa organizzazione, tutto congiurava per condurre alla sera prima della famigerata interrogazione programmata in una condizione di ampie lacune e spaventevoli vuoti: “ruit hora” (e ora rutta) avrebbe detto Orazio, ma non c'era spazio per divagazioni e frivolezze. Libri e quaderni erano lì, muti e implacabili giudici della mia impreparazione. L'ultima telefonata al compagno di sventura – al telefono fisso, ovviamente – e gli appigli erano finiti; i genitori che davano l'ultimo sguardo sconsolato al tapino sul marasma del tavolo e cominciava il viaggio al termine della notte. Il sorgere del sole e il cinguettio degli uccelli non arridevano mai, mancava sempre qualcosa... “piacere di conoscerti, nottata”.

 

ANITE

Era ormai Terza, si volava verso la maturità con l'immaturità dei tempi belli, il Greco era ormai uno spauracchio minore (era uscito Latino) e la familiarità con Duccio, esplosa nel famoso martedì grasso, ci consentiva ribalderie sorprendenti. Senza mai mancare di rispetto, come si usava ancora negli anni Ottanta del secolo scorso, ma con più leggerezza e una sottile – e allora forse nemmeno compresa – complicità che sotto quei baffi e dietro gli occhialoni il prof. Fanetti aveva iniziato a nutrire verso noi maturandi. O forse mi piace inventarla ora, a trent'anni di distanza...

Era ormai Terza, dicevo, qualcuno aveva già i baffi e altri fumavano, ma impietosa giungeva l'interrogazione programmata di Greco: vasto il programma, scarsa la voglia, forte la spavalderia. C'era Michele condannato al patibolo con me, e ci davamo man forte a rintuzzare le insidie di Duccio che spaziavano dall'aoristo quarto agli epigrammi. Finché il clima leggero e vagamente situazionista fu interrotto dalla domanda che, come una sciabolata, portò il silenzio nella classe. Da sotto i baffi, con un risolino accennato fugacemente, il Prof. Fanetti chiese: “Ditemi di Anite...”.

Lo sventurato rispose (lo sventurato era Michele): “Anite Garibalde...” e tutto finì. L'eroina dei Due Mondi aveva preso il sembiante di un'oscura poetessa dell'antichità classica.

 

Paolo Mazzini