1998-99

Liceo Classico “E.S.Piccolomini” di Siena

III C

 

Dadini

ovvero

Insegnamento pratico-morale per liceali sulla Giustizia

 

Nell’antica mitologia, la dea Fortuna veniva raffigurata come una donna completamente nuda, con gli occhi bendati, che teneva nelle mani una cornucopia rovesciata, simbolo dell’abbondanza.

Nell’epoca digitale, le informazioni, le azioni umane, i fenomeni fisici, addirittura i sentimenti di amore e odio sono numericamente quantificabili e quantificati. La nostra esperienza di vita viene gradualmente trasformata in un’enorme quantità di dati catturati da sensori, smartphones, dispositivi elettronici. Le nostre informazioni trasmesse e conservate in banche dati, vengono sottoposte ad analisi ed infine utilizzate da macchine “intelligenti” e algoritmi per predire il nostro comportamento. Sembra ormai quasi inevitabile che il destino degli esseri umani si intrecci indissolubilmente a quello programmabile delle macchine, degli algoritmi, dei robots. Se non esistono ancora, esisteranno presto applicazioni digitali robotiche per elaborare in modo efficiente le nostre funzioni vitali, e qualsiasi tipo di attività umana. Quasi tutto nelle nostre vite sta diventando oggetto di calcolo e quantificazioni, e sta scomparendo lo spazio del caso, della sorte, della “fortuna”. 

 Eppure, se anche non avessi, in qualche piega della memoria, il sincopato canto dei Carmina Burana di Orff o le lucidissime considerazioni sulla fortuna del Capitolo XXV del Principe, considererei la fortuna uno degli elementi che ha più contribuito alle scelte che ho fatto, sia professionalmente che nella mia vita privata. Fu solo un caso fortuito quello per cui, nelle grigie giornate universitarie passate chino a studiare le pandette nel chiostro di San Francesco, mi accorsi che il mio vicino di banco era uno studente in uno scambio Erasmus dall’Olanda e, con la nostra amicizia, mi nacque nello spirito la voglia di partire per conoscere l’Europa. Da allora, dal girovagare tra Londra, Bruxelles e Amsterdam non sono ancora tornato. E non fu, forse, la stessa divinità a farmi incrociare gli occhi azzurri di Ilaria, e decidere all’improvviso che tutto il mondo si poteva rovesciare per un desiderio: gli stessi occhi che ora ammiro sul volto di nostra figlia Matilde. 

 Uno degli strumenti didattici forse insoliti, sicuramente più memorabili, ed anche più efficaci nella mia conoscenza del mondo sono stati i dadi del Professor Fanetti, anzi i famosi “dadini”, come venivano chiamati affettuosamente un po’ da tutti.

Segno tangibile e concreto della fortuna, e della sua portentosa capacità di modificare l’esistenza, meccanismo cieco e ferreo per sorteggiare lo studente da interrogare. Per i tre anni del Liceo, io sono stato dunque una combinazione di due numeri, il 2 e il 6, con cui venivo estratto per l’interrogazione di latino o greco. Prima di ogni lancio, come ovvio, serpeggiava un brivido nella classe. Era il brivido che insegnava a tutti a fare i conti con questa tombola della vita con cui abbiamo quotidianamente a che fare e c’era chi si nascondeva sotto il banco, chi guardava fuori dalla finestra, chi esultava, chi tirava il fiato e il Professor Fanetti accompagnava sempre questa strana “pesca con dadini” con grandi esclamazioni, un rumoroso sbuffo, divertito anche lui. Ed era uno strumento di selezione, imprescindibilmente equo, duramente giusto, che in qualche modo, a posteriori, mi avrebbe fatto molto riflettere sui contorni delle competenze di un’altra dea bendata, la Giustizia.

 Sarebbero infatti venuti successivamente, e lontano dalla candida innocenza delle mura di Sant’Agostino, i tempi amari del confronto con strumenti di selezione meno legati al caso, ma ispirati alle distorsioni arbitrarie, alle “conoscenze” e raccomandazioni. E allora, se confrontato con altre forme di selezione intuitu personae, quello di lasciare alla fortuna la scelta di una chiamata a rendere conto dello studio o del proprio lavoro, non è poi così bislacco o irragionevole, ma anzi ha un senso profondo di equità. 

Io continuo dunque strenuamente a conservare la logica dei “dadini” del professor Fanetti, e a ritenerla parte del bagaglio ricco di insegnamenti pratici ed etico-morali degli anni liceali, insieme all’amore per la storia, per la poesia, e per la bellezza. E’ un modo per poter affrontare le sfide della vita sapendo che non tutto è meticolosamente predeterminato e predeterminabile, e che continua ad esserci spazio per la misteriosa dea bendata, e per i suoi colpi di fortuna.

 

Alessandro Spina

 

 

 

 

Prima lezione che Duccio tenne nella nostra classe, I liceo sezione C: ci chiese di raccontare un episodio capitatoci di recente, in lingua latina.

Quando toccò il mio turno, esordii con la frase: "ego veni ad mare et colorem pellis mutavi". Grandi risate di tutta la classe e grande soddisfazione di Duccio che si ricordò di questa mia frase per tutto il tempo del triennio al liceo, individuandomi come uno al quale "piaceva il mare e la vacanza".

Un altro aneddoto riguarda le interrogazioni alle quali Duccio ci sottoponeva per latino e greco. L'interrogazione si svolgeva in due fasi: la prima di grammatica, con lettura in metrica ed esame del testo, la seconda in antologia. Il voto finale derivava dalla lettura a fine interrogazione di una serie di faccine, le odierne "emoticon", che Duccio appuntava nel suo registro durante l'esame e nel corso del quadrimestre, in occasione di interventi, partecipazione alle lezioni ecc. A fine anni 90 Duccio usava già le emoticon, un precursore.

 E ancora: spiegazione delle regioni della Grecia sulla cartina. Attica, Tessaglia ecc. Ad un certo punto tocca all'Acarnania. E Duccio dice: "l'Acarnania, che non è un gusto del gelato, si trova qua". Inutile dire che da quella volta l'Acarnania è diventato davvero un gelato.

Quarto aneddoto: Duccio ci dava come compito a casa la traduzione di versioni in greco e latino, le quali poi venivano corrette il giorno seguente in classe. La correzione consisteva nel leggere ad alta voce a turno il passo in lingua originale, e tradurlo. Per mantenere alta la concentrazione, Duccio chiamava i nomi di coloro che dal posto dovevano continuare la lettura e la traduzione, una sorta di staffetta che ci obbligava a seguire attentamente. Premetto che in quell'occasione io ero seduto nell'ultima fila, accanto ad Alessandro Spina. Quel giorno entrambi avevamo una camicia, io scura, Alessandro rossa. Mentre leggevamo e traducevamo, ci venne l'idea di scambiarsi la camicia più di una volta. Duccio, che ogni tanto alzava lo sguardo dal libro, notava probabilmente qualcosa di strano, senza individuare che i colori delle camicie indossate da me ed Alessandro mutavano continuamente, ma non proferì parola. Visto che la traduzione era ineccepibile, prendemmo anche una emoticon "felice" per uno.

Di aneddoti ce ne sarebbero molti altri, quello che è sicuro è che il triennio con il Professor Fanetti è stato molto divertente, anche se impegnativo.

 

Luca Bianchi